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Cinque personaggi in cerca di Bollani

Il pianista si racconta a Riccardo Bertoncelli Uno qualche volta sbaglia l’attacco. Mi è capitato con Stefano Bollani il pomeriggio di questa intervista. Ci conosciamo, bene, così non dobbiamo usare troppi giri di parole e allora su, poche palle, diciamo le cose come stanno e diciamole schiette. “C’è gente che dice che tu fai troppe cose…”. Lui mi ferma subito: “Ah”, dice, “questo film lo conosco ed è proprio divertente. E lo sai perché? Perché tutti mi raccontano che ‘c’è gente che dice’ ed è sempre qualcun altro. Oh, non riesco mai a trovare chi lo dice veramente”. Preso. Beccato. Touché. In effetti, lo penso o non lo penso? Non lo penso. A me un giocatore del genere che gioca su più tavoli sta bene, benissimo, dischi solo in duo trio quintetto e chissà quanti format dimentico, e collaborazioni e canzoni vecchie nuove e jazz impro, ora perfino un romanzo per Baldini Castoldi Dalai che da un po’ sonnecchiava nel computer e alla fine è scivolato fuori. Si chiama La sindrome di Brontolo ed è un alato viaggio in cieli di fantasia, da qualche parte tra Gianni Rodari e Queneau, con donne fatali, venditori di palloncini, taxisti e anche i sette nani.

Bollani ci tiene ai sette nani e ha una sua ferma opinione in proposito; quando qualcuno si prova a elencarli tutti, ne manca sempre uno. Uno che è infallibilmente lo stesso (e non è Brontolo). Comunque, dopo la partenza falsa ce n’è una buona e si parla proficuamente di un sacco di cose, del jazz che non è morto but just smells funny, come amava dire Zappa, del romanzo uscito a sorpresa e del nuovo album per la ECM, un bellissimo “piano solo” bollanianamente diviso tra Prokofiev, canzoni latine, Scott Joplin e i Beach Boys giovani (una versione di Don’t Talk che vi struggerà il cuore).

“Il fatto è che non faccio in tempo a stupirmi della facilità e della velocità delle mie cose. Poi, certo, se mi fermo a pensarci, se metto insieme quattro dischi in un anno, il romanzo, le radio, le tv, sarebbe materia per tre persone diverse. Giuro comunque che è solo una parte di quello che vorrei fare – in testa ci sarebbe anche di più. E perché limitarsi? Fra l’altro, ora il momento è buono ma non sarà sempre così. Finché c’è acqua nel pozzo, è bene tirarla fuori”.

Credi nello stakanovismo musicale? John Zorn se vogliamo fa più di te – o Costello. O Paolo Fresu…
Guarda, ci credo se uno non si stanca. Ora io sono un po’ stanco. E infatti ho deciso che da ottobre a maggio mi fermo. Terrò solo tre concerti all’estero, quelli sono già fissati. Poi rifletterò, studierò, il problema è che quando sei in giro non lo fai. Suoni solo la sera al concerto e venti minuti al sound check. Il trombettista in camera d’albergo prova, il chitarrista prova, perfino il batterista, in qualche modo. Io con il piano in albergo non posso provare. Al massimo leggo o scrivo, mi metto al computer ed è così per esempio che è venuto fuori il romanzo.

Credi che esista ancora “il jazz”?
Io sì, e mi sento jazzista. Penso però che non sia più un genere musicale ma un linguaggio. è una parola che ormai significa tante, troppe cose – mentre semplicemente dovrebbe intendere la diversità, la voglia di cambiare. Così per me per esempio uno come Wynton Marsalis non è un jazzista, lui si è messo giacca e cravatta, ha deciso che il jazz finisce nel 1959 e che bisogna riproporre quella cosa lì. Non è un atteggiamento da jazzista. Il linguaggio del jazz è diversità, al limite suonando gli stessi pezzi per anni anni e anni – penso a Chet Baker e a My Funny Valentine, penso a Lacy e al suo repertorio di Monk. è come i grandi attori, come Benigni quando parla del cioccolato svizzero. Ogni sera si parte da lì ma si arriva da qualche parte nuova. Quando ho scoperto il jazz a undici anni, quando mi sono fatto i primi miti, Charlie Parker e Oscar Peterson, sono stato folgorato da quello: diversità e velocità. Improvvisazione. Non per forza senza rete, come sostiene Keith Jarrett, che mi sembra un’impresa troppo ardua e consentita solo ai grandissimi come lui. Però, però: all’interno di strutture inventare qualcosa di nuovo. A me piace costruirmi ogni volta una gabbietta, e cercare poi di scappare.

Il disco ECM è molto bello anche se ho l’impressione che tu ti sia trattenuto. Non so, in quell’altro tuo piano solo che è il mio preferito, Smat Smat, ti lasciavi più andare, avevi più voglia di stupire…
Ma certo, sì. Il fatto è che quando sei in studio con Manfred Eicher non è disco solo, è un duo. è uno dei pochi produttori del jazz che davvero c’è, e non ti dice cose generiche tipo “buona la prima”, “meglio se accorci”, “falla più veloce” – no, interviene proprio. Smat Smat è stata un’esperienza tutta diversa, lì il produttore ero io. Qui ho avuto un interlocutore, e mi ha fatto piacere che per una volta non fosse un musicista.Detto questo, però, non pensare che ci siamo messi a tavolino e il repertorio lo abbiamo messo su discutendo. L’album in origine doveva essere tutto diverso, mi ero immaginato un omaggio a Prokofiev, avevo creato una gabbia mostruosa. Settimane di lavoro indefesso a studiare, preparare, decidere cosa suonare di Prokofiev da spartito e dove improvvisare. E poi, arrivato al dunque, mi sono detto: ma perché? Perché devo sempre mettermi in gabbie più grosse di quelle che il pianista Bollani sopporta? Così ho cambiato la scaletta e ho scelto i pezzi che mi venivano. Ho tenuto un’improvvisazione su un tema di Prokofiev, ne ho aggiunte altre mie. Ho preso A Media Luz, e poi Maple Leaf Rag, e nota bene che in mille dischi ECM questa è la prima volta che passa un ragtime. Io suonavo, suonavo ed Eicher lo scopriva strada facendo, certe volte proprio lo ha scoperto alla fine, come nel caso del pezzo di Brian Wilson. Gli è piaciuto, è andata bene così.

Il romanzo è tutta un’altra cosa. Come lo definiresti?
Premetto che il libro era nel computer da tre-quattro anni e continuava a cambiare. Avevo questi cinque personaggi, li facevo incontrare, gli facevo fare delle cose e chissà quanto sarei andato avanti se non mi avessero convinto a mettere un punto. Non c’è però una trama precisa, anzi, il libro è il tentativo di raccontare una storia in cui non succede nulla – e ci sono un sacco di possibilità che i cinque non sfruttano. Penso che sia insolito per un romanzo, dove di norma accade il contrario, ma tipico della vita. Tutti gli incontri che facciamo, tutte le chiacchiere non portano a nessun risultato. Potrebbero aprire delle porte ma non possiamo o non vogliamo aprirle; e tanti discorsi che potrebbero essere approfonditi cadono invece nel vuoto. Lo so che è un assunto un po’ triste ma io penso sia vero. E i miei personaggi girano in tondo per tutto il libro senza una conclusione.

C’è un collegamento tra le tue storie e la tua musica?
Non ci ho riflettuto. Penso di sì, perché io penso spesso alla musica cinematograficamente. I suoni sono immagini, persone, storie, e le due mani capita che mettano in scena personaggi diversi. Questo però non mi è chiaro quando suono, sono particolari che noto quando riascolto – toh questo pianista sta pensando a due personaggi. E così il libro. Anche senza volere, mi sono detto, guarda un po’ cosa viene fuori: per esempio la mia educazione cattolica. Magari me ne accorgo solo io, però rileggendo trovo un sacco di riferimenti al Vangelo spicciolo, anche solo l’ascesa al cielo.

E i cinque personaggi alludono alle tue tante forme? Qui torniamo all’inizio…
Guarda, mi hanno già beccato. Ieri parlavo con un giornalista tedesco e quando gli ho raccontato che i personaggi del romanzo erano cinque mi ha detto: “Be’, è chiaro, sono cinque perché tu non sei capace di pensare a te stesso come uno e ti devi moltiplicare”. Accidenti, è vero, se ci penso nessuno dei cinque mi rappresenta ma tutti insieme sì. Oh, io sono fatto così. Quando uno mi chiede un disco che mi rappresenta, a me viene da sceglierne almeno tre.

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